Luigi Dania
Critico d’arte (1989)
… Volgendosi verso una ricerca più viva ed attuale, con una esecuzione che riflette una concezione severa del mestiere, Botticelli si è indirizzato a scoprire una nuova verità della condizione umana, raffigurando personaggi indistinti dalla immaginazione e dal sogno, con pacata elaborazione cromatica di accordi sommessi, attenta tecnica disegnativa, bilanciando giuoco di luci ed ombre, attestando nelle sue tele e nei suoi fogli commosso stupore, e, di frequente, incantata meraviglia.
Un itinerario il suo, dalle complesse ascendenze, controllato da sensibile attenzione, di cui si avvertono percezioni, emozioni, aspirazioni, nascoste inquietudini.
Logica e colta insieme, la sua pittura tesa come è verso un’aspirazione spirituale, invita a una compiuta riflessione.
L’organica personale che gli è stata organizzata lo scorso anno a cura dell’Assessorato alla Cultura di Fermo, presso il Palazzo dei Priori, ha messo in luce adeguatamente il gradevole evolversi del suo linguaggio pittorico, rivelandolo animato da una fonda interiorità.
Alessandra Nibbi, nella presentazione alla mostra suddetta, ha notato che egli “si sforza sinceramente a capire il significato dell’esistenza dell’uomo sullo sfondo dello spazio. L’uomo limitato dal tempo lo rappresenta spesso insieme alla infinità dello spazio. Perciò troviamo un grande senso di solitudine, di isolamento e anche un senso di tristezza”.
Nel percepire scopertamente le inquietudini, le ansie, le vulnerazioni peculiari del nostro tempo, e nell’indagine a proporle di frequente nelle creazioni più recenti, Botticelli, come ha scritto in una equilibrata notazione critica Francesca Soldani, vuole trascrivere “una storia originale, ma che fantasticamente riesce a mantenere l’integrità della figura umana, la sua stabilità e il suo equilibrio nell’universo cosmico”.
Alessandra Nibbi
Egittologa di fama europea (1989)
Serafino Botticelli è un giovane marchigiano che si sforza sinceramente a capire il significato dell’esistenza dell’uomo sullo sfondo dello spazio.
L’uomo limitato dal tempo lo rappresenta spesso insieme all’infinità dello spazio.
Perciò troviamo un grande senso di solitudine, di isolamento ed anche un senso di tristezza.
È un’espressione valida di uno stato d’animo che suscita anche compassione malgrado lo stile cerebrale della presentazione.
Perciò i suoi quadri sono opere di positivo valore artistico.
Giuseppe Pende
Pittore e insegnante dell’Istituto Statale d’Arte di Fermo (20 giugno 1989)
Sandro Trotti
Pittore e Docente Accademia Belle Arti di Roma (1989)
Caro Serafino, leggendo un brano di Pessoa mi sono venute in mente le tue opere di pittura che presentano sempre un piccolo omino che si muove sperduto nello spazio cosmico.
Il rapporto microcosmo così presente nei tuoi quadri trova analogia in uno straordinario scritto di Pessoa che ora ti trascrivo: “La vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente. È un viaggio dello spirito attraverso la materia, e poiché è lo spirito che viaggia, è in esso che noi viviamo. Ci sono perciò anime contemplative che hanno vissuto più intensamente, più largamente, più tumultuosamente di altre che hanno vissuto la vita esterna. Conta il risultato. Ciò che abbiamo sentito è ciò che abbiamo vissuto. Si ritorna stanchi da un sogno come da un lavoro reale. Non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto”.
Giovanni Torti
Critico d’arte (1989)
La conduzione pittorica del Botticelli non è di facile comunicativa se pur di immediata offerta visiva; è una espressione drammatica di tensione che porta il pensiero a soffermarsi per esaminare con minuziosa cura le cause che comportano la piena e definitiva attuazione di determinati atti allorchè contrarietà, forzata necessita, deviazioni volutamente scelte o imposte, avversano la serena conduzione dell’esistenza.
L’espressione di alcuni suoi personaggi, la monocromia di certe sue imposizioni, non tendono a sminuire la sensibilità di pittore, ma, anzi, gli consentono di impostare quel particolare linguaggio più confacente alle sue meditazioni.
Silvio Coccia
Critico d’arte (1990)
Quando il relativo quotidiano, da gioia dell’esistere partecipativo,”si muta in fuga interiore, allora giorno dopo giorno, quasi per contrasto, ancor più si avverte il bisogno dell’ “altro” e del mondo.
E ci sono allora due sole possibilità: o ci si dispone a comprendere criticamente le ragioni di una crisi non solo soggettiva, onde trarre la conseguenza di un nostro personale errore di relazione, oppure, ricercare e comprendere, per risolverle, le ragioni più generali che ne sono la causa.
Per Serafino Botticelli, il problema è più profondo, tanto da disancorarlo dal proprio personale e proiettarlo, idealmente e spiritualmente, all’origine stessa dell’uomo, rivelando la crisi spirituale contemporanea, denunciando il dramma esistenziale determinato da una società disattenta ed aliena da valori ritenuti universali.
E così, egli sensibilmente si volge, fingendo, in una fuga in “avanti” verso il futuro; una fuga che altri non è se non la ricerca dell’anima universale del mondo, riproposizione della centralità dell’uomo e della sua drammatica solitudine esistenziale.
Centralità, non intesa come ritorno all’umanesimo antico, bensì, antropocomplementarietà di tutto il creato, svolgendo in un lirismo pacato e sottile, il canto dell’essere che si estasia del privilegio di poter comprendere, in forma attiva, il suo farsi nel mondo e la bellezza di intelligere la sublime Armonia di cui è parte privilegiata e cosciente.
Ed è conseguente per l’artista, abbandonarsi in un viaggio mistico e razionale insieme, volto ad annullarsi, per sentire ancor più profondamente il tutto che sensibilmente lo circonda, lo sovrasta e lo accompagna, in un procedere infinito e atemporale, nell’intenzione di sublimare la propria storia che è storia dell’uomo, riconsiderando, spirito nuovo che si offre al mondo, l’autenticità ed originalità del proprio limitato spazio-temporale, infinitesimo granello del tutto che incessantemente e dinamicamente si compone, scompone, eternamente.
E nella peculiare essenzialità dell’umano che qualitativamente si esprime, svela, rinnovato amore per l’uomo, la perenne tensione spirituale, che seppur assopita, da sempre spinge l’umanità verso un destino che trascenda ogni terrena contingenza per involarsi, microinfinitesimo cosciente, tra le braccia dell’Assoluto.
Quell’Assoluto che per l’artista altri non è che l’amore del vero bello e del vero bene e che trascende, per comprenderlo, l’individuale ed universale dramma dell’uomo, nella conseguenza d’una nuova e più giusta possibilità relativa.
Così, dai suoi “silenzi” siderali, che sembrano fondersi ed originarsi da una luce al di là del tempo e dello spazio, par quasi d’avvertire il suolo di quel primigenio “respiro”, cui conseguì il contemporaneo dinamismo di essere.
E gelosamente, quasi a renderla incorruttibile ed immune dal tempo, il Botticelli si appropria, estraendola dalla storia del mondo, dell’opera dell’uomo nell’intento di trasportarla in una dimensione spazio-temporale: necessità, possibilità d’un messaggio esaltante e genuino, affidato alle onde indistinte di quel mare infinito che tutto permea e sovrasta.
Così che le antiche fontane e le antiche cattedrali, sembrano animarsi dello spirito dell’uomo, eterna testimonianza di quella tensione d’Assoluto che da sempre lo ha animato e lo anima.
Ma da ciò non può non conseguire, attraverso l’attualità, il pensiero del domani, del futuro dell’uomo, riscoprendo il dramma della sua solitudine.
E nel chiuso della sua navicella spazio-temporale, ecco l’uomo perdersi in un viaggio alla ricerca dell’ ”Altro” al di là del proprio mondo: inconscia speranza, desiderio di quegli infiniti “Altri” con cui condividere, malgrado la propria limitatezza, l’esaltante sensazione di essere.
Ed a questo punto Botticelli, sembrerebbe considerare questa possibilità quasi remota, denotando l’ “Altro” come una forma che procede su di una linea infinita e lontana dalla rotta dell’uomo: sottile, struggente suggerimento a guardare più concretamente il nostro fratello e tutto l’insieme che appartiene all’uomo, con un rinnovato sentimento d’amore; quell’amore e quella spiritualità che abbiamo messo alla base dell’attività umana, premessa d’un fine trascendente universale.
“In/Out”
di Francesca Pietracci
Storica dell’arte e curatrice indipendente (2006)
È all’incirca dalla fine degli anni Settanta che Serafino Botticelli sceglie quasi univocamente di realizzare opere all’interno delle quali compare un essere umano inserito in un contesto spazio-temporale “altro”. Da quel momento il suo lavoro sembra non distaccarsi mai da questo tema, da una ricerca costante e ossessiva che lo porta ad esplorare le diverse minime possibilità, ad affrontare concettualmente l’argomento del limite, dell’ostacolo percettivo, della compresenza di dimensioni che si avvertono come contigue a quello della normale routine della vita.
Il suo non è specificatamente un discorso sul futuro, quanto un percorso che riguarda una personale definizione di alterità. Un essere umano maschio, leggermente stilizzato, e una linea curva rappresentano le costanti presenti in quasi tutte le sue opere. La figura ritrae un se stesso astratto, osservatore di nuovi orizzonti, spaesato e spaesante, estraniato, alieno. La linea curva definisce di volta in volta l’orizzonte di una variabile spazio temporale, una via che permette di percorrere il tempo, di abitarlo seguendo un concetto di ubiquità appartenente a questo stesso e non più alla dimensione spaziale. La postazione fisica, infatti, è fissa, così come lo spazio che diventa condizione dell’essere, percezione mentale, luogo dell’immobilità, posizione neutrale, sede di tutti i possibili inizi e di tutte le possibili fini. Nelle predominanti dei colori bianco e azzurro l’atmosfera che viene rappresentata è fortemente legata al concetto di acqua, partendo dallo stato gassoso a quello solido di ghiaccio, fino ad arrivare a formazioni cristallizzate, a piramidi di gelo, ad una serie di architetture naturali, di prismi che imprigionano, o preservano, lo stesso essere umano. L’elemento acqua, dal quale dovrebbe nascere la vita e quindi il divenire, le specie animali e vegetali, viene dunque presentato anch’esso nella sua fissità, in uno stato primitivo o ultimativo, in potenza e non in atto. Un senso di infinito e la percezione emotiva di una grande attesa costruiscono l’involucro di un essere umano dedito alla riflessione sul proprio possibile destino e sull’eventualità di poter incrociare a livello mentale o sensoriale un suo simile, un’altra qualsiasi creatura che, come lui, sia stata capace di oltrepassare le barriere spazio-temporali, prigione e impedimento della Conoscenza. Ma anche quando vagamente si potrebbe percepire un’altra presenza, proviamo la sensazione che si tratti sempre del medsimo essere umano, che pur nella sua immobilità, tenta di avvicinrsi seguendo una strada parallela, una via che non porterà ad alcuna possibilità di coincidenza, di convergenza, di incontro.
Essere irreversibilmente soli e fissi, poggiando i propri piedi sopra distese di ghiacci, permette però di fissare il proprio sguardo e la propria mente verso una grande sorgente di luce, un astro freddo e luminoso che spunta all’orizzonte come un grande sole. È questo senso di stato nascente, che permea la totalità dell’opera di Serafino Botticelli, che apre allo spettatore un ventaglio di possibilità interpretative, una serie di provocazioni che lo spingono a pensare alla propria esistenza da un altro punto di vista. Quello che viene suggerito, infatti, è un punto di osservazione multiplo, complesso, risultato della sintesi del dentro e del fuori. Lo spazio mentale viene rappresentato come un ambiente esterno, come mondo visibile. Lo spazio esterno, invece, diventa la condizione dell’essere umano vista al di fuori del pianeta Terra, delle convenzioni spazio-temporali, esternamente alla storia. Il Nulla e l’Assoluto man mano coincidono, si sovrappongono, fanno pensare ad una possibile teogonia e a tanti probabili mondi come rifrazioni di uno stesso nucleo evolutivo. All’interno di questo semplice, ma coraggioso discorso riguardante i massimi sistemi, si possono rintracciare disparate suggestioni culturali e scientifiche, pensieri e dubbi che hanno attraversato la storia dell’umanità, piccoli spiragli aperti verso un abisso di supposizioni. Eppure l’artista marchigiano percorre questo sentiero investigativo partendo da un proprio interrogativo, dal quel disagio universalmente avvertito dalla mente umana nei confronti di un dentro e di un fuori, di un prima e di un dopo, di una possibile definizione di immobilità e movimento all’interno di un sistema caratterizzato dal moto perpetuo e dalla forza gravitazionale.
Egli percorre e indaga l’alterità partendo dalla percezione della propria interiorità. I suoi dipinti ad olio necessitano di lunghissimi tempi di realizzazione, passaggi successivi di minime variazioni di bianco, di minime rifrazioni di luce, sopra tele per lo più molto grandi che, alla fine, risultano estremamente smaterializzate, ricche di trasparenze e indizi ipnotici, di bagliori improvvisi che contengono simboli infinitesimali, dipinti attraverso la lente d’ingrandimento e difficilmente percepibili ad occhio nudo.
In tutto questo l’artista si inserisce anche nella grande tradizione della pittura marchigiana caratterrizzata da una costante tensione metafisica e da un inquietudine intellettuale che, in altri tempi e seguendo altre modalità, hanno costituito un aspetto evidente nell’opera di Donato Bramante, Raffaello Sanzio, Vincenzo Pagani, Fortunato Duranti, Adolfo De Carolis, e molti altri fino ad arrivare a Scipione, Gino De Dominicis, Enzo Cucchi e al grande fotografo Mario Giacomelli.
“Adamo: un microcosmo nello spazio-tempo”
di Scialom Bahbout
Docente di fisica all’università La Sapienza di Roma e direttore dell’Accademia di studi ebraici Tifèreth Yerushalàim di Gerusalemme (2006)
Secondo la Kabbalà, quando Dio creò Adamo, il suo corpo occupava tutto lo spazio e in lui erano presenti tutte le generazioni future. Insomma, l’essere umano era un concentrato dello spazio e del tempo, in fisica si direbbe una sorta di buco nero, dove lo spazio e il tempo si annullano.
Quando, dopo l’esplosione primordiale, lo spazio e il tempo hanno cominciato a dispiegarsi, l’uomo è diventato un microcosmo, un mondo aperto in cui confluisce la storia passata e prende forma quella futura, un anello insostituibile della catena che lega le generazioni, dove il passato, il presente e il futuro convivono e quasi si confondono, e il passato – secondo le regole dell’ebraico biblico – può divenire futuro e viceversa.
Avanzando nello spazio-tempo con moto elicoidale, l’umanità ha intrapreso un viaggio che la porterà a raggiungere l’obiettivo in cui lo spazio e il tempo finiranno per avere le stesse caratteristiche. Non lo spazio-tempo della concezione einsteiniana in cui il tempo diventa coordinata assimilabile alle altre coordinate spaziali, ma al contrario uno spazio-tempo in cui lo spazio diventi come il tempo, inclusivo e non esclusivo: come un istante può essere vissuto contemporaneamente da più persone, così lo spazio potrà essere occupato da varie entità.
Viaggiare nello spazio – anche quello interplanetario – da sogno è divenuto realtà. Viaggiare nel tempo, con il proprio corpo, appartiene al mondo dell’immaginazione, e all’artista – in cui si rispecchiano tutti i mondi possibili – ciò è sempre concesso.
“La macchina celibe”
di Angelo Mainardi
Scrittore (2006)
L’Uomo, un essere solitario perduto nel Cosmo? Un essere forse incompatibile con le leggi dell’Universo, per l’infinità del suo desiderio, per l’eccesso della sua intelligenza consapevole del destino a cui è condannato? Tanti indizi inclinano verso questo giudizio. È con una rete di rapporti, di filamenti, simile al ragno che si muove nella sua tela sospesa nel vuoto, ch’egli cerca di sottrarsi alla sproporzione tra se stesso e l’immensità incommensurabile del mondo. La città, l’amicizia, l’amore disegnano per lui una fragile ragnatela. Ma l’Uomo può finire per esserne prigioniero, proprio come il ragno finché non si libera della sua tela per costruirne un’altra nello spazio senza appigli. Allora si riapre, quasi in un gigantesco specchio senza fondo, il suo dialogo con se stesso e con l’infinito. Macchina celibe, la sua avventura ricomincia nella sfida e nell’azzardo, e la solitudine dell’essere nel Cosmo sarà un cammino a rischio sulla corda dell’acrobata tra i due poli estremi della desolazione e della consapevolezza. Non è forse per questa doppia/dubbia scommessa che gli uomini spezzano sempre le sbarre che si sono creati, le sicurezze in cui si erano rifugiati?
“Comunicazione: memoria del futuro”
di Antonio Vallelunga
Studioso di Comunicazione del Cambiamento (2006)
Le trasformazioni sociali e culturali degli ultimi decenni hanno tradotto il mondo in una fitta rete all’interno della quale le possibilità di esperire l’altro e l’ambiente si sono moltiplicate e modificate nelle modalità e nei contenuti. La razionalizzazione radicale della vita risponde al tentativo di negare valore al passato e di chiudere ogni possibilità per un futuro alternativo. La cultura del presente, per questo motivo, si dispiega in un apparato di strutture razionalizzate che non lascia spazi liberi e che penetra fin nei punti nascosti della vita individuale. Il continuo lavorare alla vita, non invita a rivoluzioni o a cambiamenti radicali, al contrario si mostra rassicurante. La riduzione al presente, al contingente, all’effimero rappresenta il tentativo di una cultura di fissare lo status quo, l’estremo tentativo di una società di conservare se stessa.
L’unica società per la quale vale la pena operare è, invece, quella del dialogo che secondo un modello neocomunitario e di dialogo interculturale è in grado di ridefinire il rapporto tra persona e contesto sociale.
La comunicazione è la linea che congiunge passato e presente proiettando nel futuro ampi spazi di consapevolezza, essa fa sì che la memoria divenga un paradigma, una “regola del gioco” nella relazione tra passato e futuro, nella rappresentazione del presente nel futuro, nel riconoscimento dell’ ego nell’alter.
Nella società dell’informazione, dell’accesso e della conoscenza, la comunicazione è il mezzo di consapevolezza del presente e la funzione di memoria del futuro.
“Pittore del sentimento universale”
di Luciano Lepri
Giornalista critico d’arte (Perugia, gennaio 2016)
Serafino Botticelli non è solo un artista preparato tecnicamente e culturalmente – come i suoi studi dimostrano – e non è solo un artista che denota un vitale desiderio di agire e di creare come dimostra la sua attività di scenografo -, ma è anche, e soprattutto un artista dal segno inconfondibile tanta è la delicatezza e la raffinatezza di questo segno che al contempo risulta, però, essere penetrante e di grande comunicazione.
Ma Serafino Botticelli è anche un artista che attraverso il colore cerca di esternare un sogno, un’utopia, un vagheggiamento dell’ animo.
Infatti egli, ricomponendo sulla tela le immagini del suo paesaggio interiore, penetra nel segreto delle cose, scoprendo in esse e nell’uomo, che è il suo costante punto di riferimento, gli aspetti ed i significati più profondi, dove quell’apparenza capace di colpire i cinque sensi viene trasfigurata ed esaltata attraverso il filtro della fantasia, in un‘aura indefinibile che appartiene a quella sfera del sentimento e delle emozioni che viene detta poesia, ma che non è scevra da una certa costruzione analitica e razionale dell’insieme.
Osservando i suoi lavori appare evidente che la tessitura coloristica, la puntuale ambientazione, l’attenzione al dettaglio, il gusto della costruzione spaziale, derivino da una intelligente integrazione tra segno, colore, simbolo, cromia e luce che così definiscono la piena e singolare originalità di un portato pittorico di assoluta rilevanza.
In sostanza mi pare di poter dire che dal perfetto connubio tra sentimento e pensiero nasca la grande arte di Serafino Botticelli anche come creazione di forme nuove, quindi come fare inventivo ed originale capace di raccontare il proprio mondo, i propri sogni, le proprie speranze e la personale visione dell’universo.
“Serafino Botticelli”
di Lara Nuvoli
Critico d’arte (Roma, agosto 2018)
Un uomo si staglia sull’orizzonte degli eventi. In una dimensione di luce assoluta, di infinito abissale, di tutto. Serafino Botticelli è affascinato dall’alfa e dall’omega dell’esistenza e punta in quella direzione la sua ricerca pittorica. L’artista di origine marchigiana si sofferma sui rapporti di potenza visiva che intercorrono tra la finitezza dell’uomo e l’espansione impossibile da cogliere dell’universo. Le sue opere sono infatti caratterizzate da un dualismo compositivo in cui la relazione tra noi e l’esistente emerge nella sua sproporzione a favore di tutto ciò che è altro da noi. Sebbene dai suoi lavori traspaia una profonda malinconia che poggia sulla coscienza dell’impercettibilità della nostra esistenza a confronto delle profondità cronologiche degli eoni e delle vastità inconcepibili dello spazio, a ben guardare traspare un sentimento confortante e di stampo romantico dell’uomo. Stimolato in questo modo a rientrare in contatto armonico con un tutto di cui è parte e che allo stesso tempo lo sovrasta.
“Genesis”
di Alessia de Antoniis
Giornalista Wondernet Magazine e Critico d’arte
Serafino Botticelli rende la Genesis con colori come il bianco, il giallo e l’azzurro, colori da sempre utilizzati per descrivere il divino. Realizzati con estrema precisione, i suoi ipnotici dipinti ad olio nascono, seguendo quel movimentocircolare che esprime l’eterno oscillare tra microcosmo e macrocosmo, dalla luce: la luce dell’alba, dell’aurora, del sol levante.
SERAFINO BOTTICELLI
Fermo (FM), Italy
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